Salotto New York City: un laboratorio di creatività italiana negli USA

A New York esiste un salotto di riferimento per i migliori talenti italiani. Siamo a Williamsburg, storico quartiere di Brooklyn che ospita il Salotto New York City. Il salotto è un vero laboratorio di creatività italiana appena nato, ma con uno scopo chiaro: diventare uno degli hub culturali di riferimento della Grande Mela. Il luogo è già punto di ritrovo di numerosi artisti e professionisti presenti nella grande metropoli americana; un vero spazio polifunzionale, propulsivo e all’avanguardia che riunisce specialisti uniti dalla passione per le arti visive e accomunati dalla stessa filosofia di vita: un pensiero che sposa l’energia tipica del paese a stelle e strisce allo spirito di condivisione tutto italiano.

A raccontare nel dettaglio il Salotto NYC e i suoi progetti vi sono Vittorio Perotti, Emiliano Ponzi, Giulia Zoavo e Marco Rosella: ascolta l’intera intervista per scoprire la nascita del progetto attraverso la storia dei loro incontri tra esperienze individuali e condivisione di competenze.

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Davide Ippolitio intervista il Salotto New York City

Nove individualità diverse, ognuno con una carriera eccezionale (storie fantastiche, premi, clienti) uniti dall’idea di mettersi insieme e fare un salotto. Perché il salotto e qual è l’idea ce c’è alla base?

Emiliano Ponzi: dall’individualità si passa a un essere collettivo, che è il salotto. Dove non si rinuncia all’individualità, perché ognuno, come tu hai detto, continua la propria carriera con i propri obiettivi professionali, focalizzati sulla propria storia lavorativa e sulla propria formazione sia come individuo che come professionista. Però, la possibilità di creare un salotto; quindi un ambiente non solo condiviso di lavoro, ma anche un ambiente che accoglie qualcosa che è altro dalle singole individualità non può che essere un vettore di arricchimento per tutti noi, soprattutto in una città come New York dove mancava un posto che chiamavi casa, dove chiunque si poteva venire per fare uno spettacolo di stand-up comedy, un concerto unplugged, la presentazione di un libro, una mostra. Ecco perché “salotto”, anche la parola che si è deciso di usare vuole proprio rappresentare la somma di questo concetto: da un lato il comfort e dall’altro quello in cui noi siamo estremamente bravi che è la convivialità e lo stare assieme che è, come dicevo prima, un arricchimento dell’individuo che passa attraverso lo scambio della tua esperienza con la mia.

In che modo impatta sul vostro lavoro?

Vittorio Ponzi:
incide in modo secondo me fondamentale, perché comunque il bello di quello che stiamo creando è il bello di avere un circolo virtuoso: collaborando, condividendo lo stesso spazio e avendo interessi e passioni ci completiamo. Penso che per un creativo lavorare da solo, a casa è molto meno stimolante che lavorare in un posto come il nostro. Mi sento molto fortunato ad avere uno spazio del genere e poter condividere quelle cose che ho visto il giorno prima, o spettacoli che sono successi a New York, confrontarsi sui film che sono appena usciti, o anche le mostre da andare a vedere o banalmente chiedere un parere sul tuo lavoro a un collega. Per assurdo noi non siamo colleghi, non abbiamo un unico portfolio; ognuno di noi ha una carriera diversa, ma bene o male complementare. Come salotto ci piace appunto mettere insieme le nostre skill per fare in futuro anche qualcosa di potenzialmente bello insieme.  

La percezione che hai avuto è l’idea di ricreare quell’idea di Factory o Landing World, insomma: creare un luogo che sia di riferimento. In merito credo anche che il luogo Williamsburg non sia casuale, così come la parte relativa agli eventi: qual è la direzione precisa di quella parte? Quand’è che si è deciso “Il salotto non è solo uno spazio per lavorare insieme, ma anche uno spazio che deve dare qualcosa in più?”

Giulia Zoavo: penso sia successo in modo molto organico, perché noi abbiamo iniziato a lavorare insieme in un posto molto più piccolo di questo, che che era il nostro studio precedente, in cui noi principalmente lavoravamo, poi ogni tanto facevamo una festa o un piccolo evento e quei piccoli eventi sono serviti per capire che ci piaceva farlo ed eravamo abbastanza bravi a farlo perché tutti insieme conoscevamo sempre più persone, ognuno aveva amici che venivano; si creano nuove sinergie, nuovi interessi, qualcun altro voleva unirsi. Quindi, è stata una cosa organica che è successa, inevitabilmente, nel tempo e a un centro punto abbiamo detto: sarebbe bello creare un posto adatto per questo… anche perché vedevamo che ci mancava un posto in cui fare una mostra, fare un evento. Sarebbe stato bello avere uno spazio così da usare come volevamo e abbiamo detto, ma perché allora non lo facciamo noi?

L’indirizzo è quello di creare un bridge, un ponte culturale tra l’Italia e gli Stati Uniti?

Marco Rosella: nel nostro primo evento abbiamo incontrato almeno un centinaio di persone che hanno avuto una carriera molto simile alla nostra: hanno cominciato dall’Italia ad accrescersi, poi hanno fatto un salto a New York e quindi noi troviamo molta corrispondenza.

La cosa che mi viene in mente è che poi, alla base di tutto, anche se avete storie diverse… c’è sempre il Sogno Americano che vi unisce: nel realizzare le proprie ambizioni in un campo così complesso… una cosa che vi accomuna è il fatto di essere nelle arti visive in senso diffuso; magari altri componenti non sono specificamente delle arti visive, ma comunque sono in ambiti molto affini; e anche loro hanno avuto bisogno di fare questo salto per realizzarsi. Mi piacerebbe sapere da ciascuno di voi, cosa c’è alla base di questa scelta di venire qui, a New York, in particolare?

Marco Rosella: Sì, io lavoravo gli ultimi 5 anni a Milano, prima di venire qui e quindi, lavorando soprattutto in pubblicità, New York era il passo successivo, il campionato, una sorta di Champions League del mio settore. Mentre ero a Milano ho vinto alcuni premi internazionali del settore di cui mi occupavo, che erano i video interattivi ed animati e ho ricevuto una chiamata da un paio di agenzie a New York, quindi c’è stato il richiamo dell’America verso di me, quindi ho deciso di provare questa avventura e dopo un po’ di anni, sono ancora qua. 

Giulia Zoavo: noi abbiamo una storia abbastanza simile. Dico noi perché io e Vittorio siamo venuti insieme. Siamo una coppia, però avevamo anche fatto un progetto insieme e quel progetto è stato poi ripreso da alcuni blog, ci hanno fatto degli articoli. Visto che era stato un progetto che ha girato su varie piattaforme ci ha chiamato uno studio abbastanza importante di New York. Noi non è che avessimo proprio il sogno americano, però eravamo arrivati da turisti a New York, e ovviamente, quando arrivi da turista, ti rimane un po’ attaccata New York. Io racconto sempre questa cosa che a Natale ero a cena con i parenti e mi chiedevano: “ma quand’è che ti sposi, compri una casa, trovi un lavoro fisso. Io rispondevo sempre “Prima devo andare a New York, poi ne parliamo” E poi è successo. Lo abbiamo cercato un po’ indirettamente, è stato un po’ un gravitare di energie. Siamo venuti qui qualche mese e poi abbiamo detto, ok proviamo a rimanere e vediamo cosa succede; anche lì è sempre lo stesso discorso del vedere cosa c’è oltre. Anche noi eravamo a Milano, che è già un bel campionato, ci sono grandissimi professionisti, agenzie, clienti però, insomma, New York, è una sfida in più. 

Emiliano tu hai, correggimi se sbaglio, una carriera al contrario: la tua carriera si sviluppa prima negli Stati Uniti dall’Italia, c’è un primo articolo sul New York Times tanti anni fa e una serie di attenzione dagli Stati Uniti, quindi tu hai sempre lavorato con gli Stati Uniti, ma hai deciso di venirci solo un anno fa?

Emiliano Ponzi:  Io ho sempre lavorato con tutti, spezzo anche una lancia a favore dell’Italia. Quello che dici è vero. Io comunque ho iniziato nel 2004 forse a lavorare con gli Stati Uniti, però parallelamente stavo già iniziando a lavorare in Italia; ed è chiaro che gli Stati Uniti, essendo un mercato costituzionalmente più grande ti dà delle possibilità, espande comunque in maniera esponenziale quello che è la visibilità delle cose che fai o anche la grandezza, la dimensione delle cose che fai. Io sono venuto solo un anno fa perché, diciamo volevo venire prima, ma per ragioni personali non sono riuscito a sganciarmi da alcune situazioni, e sarei dovuto venire ancora prima, ancora prima di un anno fa, però c’è stata la pandemia, quindi tutti i visti sono stati bloccati… Ho una nuova definizione di sogno americano: il sogno americano era ormai quella certezza di un luogo che aveva meno per andare in un luogo dove comunque ci sarebbe stato di più di quel poco che avevi, se ci riferiamo alle ondate migratorie del dopoguerra. Per me, invece, ma credo anche per tanti della mia, della nostra generazione, anche se io ho qualche anno in più di loro, è proprio quello di mettersi scomodi, mettersi in una posizione mentale, dove se tu sei scomodo in una sedia, il tuo costante movimento per trovare una posizione più comoda ti fa crescere, ti mantiene vivo, attivo, responsive, quindi io credo che chi viene qui abbia quell’istinto naturale a voler continuamente modificarsi, cambiare pelle, migliorare, quindi il sogno americano diventa un sogno verso qualcosa di sconosciuto.

Proprio per come è fatto questo mondo, dove il successo diventa proprio fermarsi e dire “ce la sto facendo a stare qui”… 

Emiliano Ponzi: Sì che è anche poi, se ce la fai, no, If you can make it here, you can make it like everywhere, come dicevano sempre, che è vero in realtà. Poi è ovvio che bisogna capire a che condizioni ce la fai qui: come stai, quanto sei disposto comunque anche a combattere perché, comunque, è chiaro che una città come New York, il tuo livello di aggressività, non intendo un’aggressività non verbale, ma un’aggressività anche di business o anche nei confronti, per fare un discorso un filo più profondo ma senza soffermarmi, anche rispetto alle tue emozioni negative devi avere comunque una reattività notevole perché magari hai anche una rete di sicurezza inferiore, non hai parenti, hai più complessità anche oggettive anche proprio a spostarti a fare delle cose che magari nel nostro posto comodo noi eravamo abituati a gestire in maniera più semplice. 

Vittorio Perotti: parte del sogno americano probabilmente è che ti chiamano, ti danno un lavoro, poi il lavoro lo completi e lo finisci; e ti domandi “ok, voglio rimanere o no?”. Se vuoi rimanere per noi è stato comunque un percorso nei primi anni fatto di paure, dubbi o anche indecisioni… abbiamo detto per i primi tre anni, al terzo anno torniamo e chiudiamo l’esperienza qui, ma c’è una soglia, non saprei dire quando, sicuramente dopo il secondo anno e mezzo in cui abbiamo iniziato a raccogliere il seminato della nostra esperienza newyorkese e si è realizzato piano piano il nostro ideale di cosa vogliamo fare. Da creativo sento che voglio continuare a viaggiare, viaggio spesso, ma avere una pianta di base qui, per me è la cosa più stimolante che ho e quindi le persone che conosco ogni giorno qui a New York è difficile trovarle in altri posti e quindi per me è proprio essere recettivo il più possibile. 

Perché William?

Giulia Zoavo: la cosa bella di salotto secondo me è che noi ci poniamo un po’ in continuità anche con quello che è questo quartiere perché da un lato Williamsburg è la zona degli artisti, degli hipster… un fermento culturale molto evidente, dall’altro però c’è anche una serie di strade che sono completamente italoamericane. La via dove avevamo prima dietro lo studio, che si chiama anche via Vespucci, quindi c’è un’immigrazione italiana dall’ondata precedente che è ancora presente… ci sono tantissimi italoamericani con tanti negozietti con dentro gli americani che però parlano un po’ italiano: quindi noi siamo questo ponte tra gli artisti di Williamsburg e i vecchi immigrati che sono venuti qui dall’Italia. 

Emilian Ponzi: già sia via email che sui social riceviamo tantissime richieste di persone che non solo vogliono passare per conoscere il posto, il salotto, ma che propongono anche dei progetti. L’esigenza di essere qui noi è aver rilevato come ci sia una quantità, e tu credo lo stia scoprendo in questi mesi e lo abbia scoperto tutte le volte che venivi, quanti talenti italiani straordinari ci siano a New York, che però talvolta non hanno un luogo di dialogo, un luogo dove potersi conoscere e dialogare. 

Siete a un punto della vostra carriera in cui avete avuto tante soddisfazioni ed è innegabile basta googlare i vostri nomi, anche se non mi piace questo termine: vi sentite di dare un consiglio pratico per aiutare chi intende inseguire l’American Dream?

Se ci credi potresti farcela. Non è detto che la farai. Se non ci credi non ce la farai mai. Qui, negli Stati Uniti, con il livello di competizione e difficoltà è importante credere nelle proprie potenzialità, ma anche avere qualcuno che creda nelle tue potenzialità. Ed è proprio questo lo spirito salotto della condivisione del nostro lavoro. Il potere dello stare con altre persone e far vedere le proprie cose agli altri, non aver paura del giudizio, mettersi in gioco con gli altri e creare squadra perché non stiamo competendo, ma stiamo vivendo insieme non è scontato. Di più, concentrarsi e mettersi a guardare i propri piedi, analizzando dove si sta andando piuttosto che stare a guardare dove stanno andando gli altri.

La grande filosofia del Salotto New York è, dunque, trovare l’equilibrio tra risorse personali e collettività: l’investimento più grande che si può fare è puntare su se stessi, ma in uno Stato sempre più individualista è anche importante tenere stretti i valori della condivisione e dello stare insieme, che è qualità distintiva del nostro essere italiani.

Ascolta i preziosi consigli degli esperti del Salotto New York City nell’intervista completa.



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