Clara Ramazzotti – Un sogno costruito su pazienza e idee chiare

Contributor per le edizioni italiane di Vanity Fair, Harper’s Bazaar, Wired e altre, Clara Ramazzotti alterna le attività da autrice a quelle da ricercatrice e figura accademica alla City University of New York e in altre istituzioni collegiali americane occupandosi, tra le altre cose, di studi e critica dell’audiovisivo. L’abbiamo interpellata per parlare della sua esperienza a stelle e strisce e della vita oltreoceano dopo il Covid.

Sei qui dal 2017 e negli ultimi due anni hai raccontato com’è cambiata New York con il Covid, e in particolare in un articolo su Vanity Fair nel 2020 hai spiegato com’è cambiato il sogno americano. Adesso confermi tutto quel che hai detto?

Confermo tutto, nel senso che il cosiddetto sogno americano, cioè quello di arrivare in una città come New York e realizzare i propri desideri, trovare tutto quello da cui si stava cercando di scappare, come una posizione lavorativa insoddisfacente nel proprio paese di origine, o stipendi molto bassi; ecco tutto questo secondo me non è più particolarmente valido in certi settori come quello in cui lavoro io, cioè la scuola. La città secondo me è cambiata nel senso che, difficilmente, questi due anni potranno passare senza lasciare un segno. Si vede già il segno di quartieri che sono stati completamente trasformati e cambiati, in modo che neppure con uno stipendio medio-alto si possa fare una vita decente, e quando dico “decente” intendo, banalmente, poter pensare a un futuro stabile, a una famiglia, o di comprar casa. La difficoltà sociale secondo me con il coronavirus si è fatta più pressante rispetto a prima. New York è sempre stata una città complicata, non stiamo parlando di una città facile, ma con il Covid una grande quantità di persone anche con un’attività media – come un ristoratore italiano che qui poteva avere tanto successo – si sono dovute fermare per due anni. Persone che erano venute qui cercando di inseguire quel sogno, magari lavorando nel frattempo in un ristorante o nel mio settore, per poi valutare di essere indipendenti e aprire la propria azienda, hanno avuto un fermo di due anni, che non è cosa da poco, perché gli affitti qui non si sono fermati. Spesso si è detto che gli affitti si sono abbassati, ma il problema è che si sono rialzati e raddoppiati nel giro di pochissimi mesi, a partire dalla metà del 2020-inizio 2021. Diciamo che era una “finta”. Tutti questi elementi sono nati con il coronavirus, e in più il coronavirus secondo me – ed è quel che un po’ distrugge quest’idea di sogno americano – ha potenziato dei problemi che c’erano già… Persone che magari avevano un lavoro medio-basso come reddito, si sono ritrovate a essere al limite se non a diventare “homeless”.

Sono aumentati i senzatetto?

Sono aumentati tantissimo; il problema è che è aumentato anche l’insorgere di malattie mentali legate a questo fenomeno.

Questo è un problema un po’ diffuso, se ne parla molto poco. Anche in Italia, soprattutto nelle fasce più giovani, dell’adolescenza a salire. Veri e propri problemi psichiatrici…

Sì, infatti noi adesso stiamo camminando sul lato di Central Park che dà sull’Upper West Side, che in questi due anni si è riempito di persone senzatetto molto più di quanto non si vedesse prima del Covid, ma non è tanto la quantità – che comunque sconvolge – quanto il problema della sanità mentale. Avere persone anche molto giovani con dei problemi di salute mentale evidenti, per giunta senzatetto. Non c’è un aiuto e un controllo su questo. Esistono associazioni, ma il problema è sistemico. Questo esisteva già, ma il coronavirus ha come aumentato, triplicato, quadruplicato la potenza di quei problemi lì. Il problema della casa esisteva già a New York. Con l’arrivo del coronavirus è diventato centrale far vedere che, senza una dimora decente, essere chiusi e bloccati in casa è un enorme problema, così come se n’è parlato spesso in Italia. Il fatto di avere persone con una precarissima salute mentale e senza fissa dimora e lavoro era già un problema esistente a New York. Siamo in 9 milioni quasi, quindi ci sono persone che non stanno particolarmente bene. Il coronavirus ha fatto sì che queste persone fossero ancora più abbandonate di prima.

Quindi, quando parlavo di questo sogno americano, parlavo un po’ dell’arrivare qui e doversi rendere conto che non tutte le situazioni, adesso, sono simili. Anzi, c’è un divario elevatissimo tra chi è molto benestante o ha un lavoro molto proficuo, e chi vuole semplicemente iniziare un’attività. È una città che secondo me si è complicata parecchio la vita rispetto a prima. Questa è la mia percezione da insegnante e giornalista.

Ora sei diventata il prototipo della newyorkese vera. Insegni in due università, scrivi e sei corrispondente estera per diverse testate, quindi fai tanti lavori – che è molto newyorkese come cosa… Raccontaci un po’ come mai hai scelto di venire qui, come sei arrivata, e tutto il processo che ti ha portata a superare le difficoltà che ci sono anche nell’ottenere i visti.

Io sono arrivata qui nel 2017. non avevo il sogno americano, non avevo mai pensato particolarmente agli Stati Uniti, non era uno dei miei obiettivi in particolare. Lavoravo a Milano come digital strategist, nella pubblicità, e mi piaceva molto. Stavo bene sia a Milano come città che nel mio lavoro. Il mio compagno a un certo punto ha vinto un posto negli Usa come insegnante e lì ho cominciato a ragionare sull’ipotesi di provare a fare qualcosa di simile: provare a cambiare carriera e vedere se questo posto fosse interessante. Non l’ho seguito, ho cercato il mio spazio per conto mio e ho pensato: “proviamo a vedere se cambiando carriera, funziona”. Nonostante mi piacesse il mio lavoro, volevo un po’ variare. Effettivamente, ero un po’ stanca, così ho deciso di fare un’application e chiedere a varie università un posto sia come insegnante che per un dottorato, e ha funzionato… Non subito; ci ho messo circa due anni. Ci sono stati lunghi tentativi, anche abbastanza costosi, però ha funzionato. Mi hanno chiamato dalla City University of New York, che è la scuola pubblica più grande di New York, e ho iniziato lì a fare un dottorato; ricerca, quel che mi interessava, e poi ho iniziato a insegnare anche in parallelo in diversi college americani legati alla città. Come side job – proprio perché è una cosa molto newyorkese doversi trovare anche altre cose da fare – appunto, scrivo. Durante il 2020 ho deciso di parlare un po’ di più di quel che vedevo a New York non dal punto di vista turistico; volevo assolutamente cercare di spiegare come alcune cose che sembravano prive di senso, invece, avessero tantissimo senso. Ad esempio il fatto che qui all’inizio non si credesse che servissero le mascherine o che fosse tutto un problema europeo, per esempio. Continuavo a farmi queste domande e ho voluto scriverne… Oppure, per quale ragione un quartiere come Williamsburg avesse il più alto numero di persone infette. E poi, in verità, il mio focus è sempre stato la critica televisiva, che poi è anche il tema del mio dottorato, e quindi cerco sempre, ove possibile, di parlare di cultura americana o di eventi americani e newyorkesi, collegandoli a quello che si vede sui media americani, e quindi la serialità televisiva. 2020 e 2021 sono stati anni incredibili sotto molti fronti, per esempio quello della comunicazione media. Serie tv come “Watchmen”, nel pieno delle proteste “black lives matter” che ho vissuto e seguito qui per alcuni giornali, erano stranamente collegate, ed era estremamente interessante assistere alle proteste dalla finestra, e poi su HBO guardare una serie tv che, volente o nolente, racconta la stessa cosa. Ha funzionato, sono qui da cinque anni e faccio questo.

Perché nelle serie tv il Covid non esiste? Perché hanno deciso di ignorarlo del tutto?

Non c’è una risposta oggettiva. In realtà non lo stanno ignorando; molte serie tv lo stanno utilizzando come, come “The Morning Show” o “This is Us”. Dipende un po’ come lo utilizzano…

Alcune non lo fanno. Se lo utilizzano, lo fanno a livello narrativo. Mi aspettavo, magari in qualche serie tv, di iniziare a vedere le mascherine, il distanziamento. Invece sembra che il mondo, anche nei film, non sia stato toccato dalla pandemia.

Bisogna capire anche in che universo narrativo vuoi fare la tua storia. Se la tua storia deve avere qualche legame realistico, il Covid c’è, che sia narrato o solo detto generalmente… Per esempio, di recente, chi ha parlato del Covid in chiave molto soft è stato il sequel di “Sex & the City”, “And Just Like That”, dove praticamente il primo episodio dice con chiarezza che c’è stato il Covid: è finito, ma viene citato. È una chiave realistica per utilizzarlo parlandone come di un “post”; una cosa superata. Logicamente, lo capisco: nessuno vorrebbe continuare a ricordare questo Covid che comunque esiste e persiste. Altrimenti, l’altra chiave narrativa è, di solito, apocalittica. Da un certo punto di vista può essere catartico vedere quel che ti è successo, narrato come un evento assurdo, ma non è realistico; non esattamente. Una serie tv americana che secondo me ha fatto un lavoro incredibile, bellissimo, si chiama “Station Eleven” ed è sempre su HBO. Parla di un generico virus che ha colpito il pianeta. Ci sono le persone con le mascherine, si vede tutto quel che abbiamo già visto. Ovviamente, questo virus è nato in Asia, quindi “già sentito”, però in una chiave post-apocalittica. Quel che sentiamo reale è vedere delle persone con le mascherine; vedere delle persone in quarantena. Purtroppo, nel caso di questa serie vedere anche persone che perdono la vita, ma non è realistica per via dell’elemento apocalittico. Secondo me la scelta si è biforcata su due strade.

Più che il realismo di contestualizzare, è un po’ quel compito che serie tv e cinema hanno sempre avuto. Se questa città è così iconica, lo deve al cinema. In un Paese dove, tolta New York, il Covid “non esiste”, forse “non è mai esistito”, mascherine non ce ne sono, i vaccinati sono pochissimi… Forse serviva un lavoro sociale anche per rendere l’idea?

Finora quel che ho notato è che, forse, c’è anche poca comprensione di questo fenomeno, in un certo senso. Forse è presto, lo stiamo ancora vivendo anche se è diverso rispetto all’inizio. Forse molti scrittori e scrittrici non sanno esattamente cosa dire in merito, e poi secondo m’è c’è un’altra questione. Nonostante il Covid sia stato molto politico, in qualche modo non è percepito politicamente come altri temi, come per esempio “black lives matter”. Probabilmente sul Covid, che è comunque un virus, c’è stata un’intensa lotta politica, però ha colpito grossomodo un po’ tutti in diverse fasi e momenti, mentre altri temi di giustizia sociale, legati al voto o all’opinione o al climate change, in questo momento, rimangono specifici di certe categorie che, se non sono loro a parlare di questo tema, “nessuno ne parla”. Forse c’è anche questo che i media non vogliono più affrontare. Di Covid parliamo tanto e ne abbiamo già parlato tanto, mentre degli altri temi non parliamo abbastanza.

Upper West Side e Upper East Side: sono questi i confini delle aree ricche di New York?

Lo diceva anche Tina Fey: l’Upper West è dove ci sono i ricchi “brutti”; che lavorano per esser ricchi. Nell’Upper East ci sono i ricchi che non hanno bisogno di lavorare; sono ricchi e basta. Questa è una filosofia che rimane abbastanza – al di là che poi non è sempre vero. Nell’Upper West è comunissimo trovare magari attori o producer che fanno una passeggiata, o prendono un caffè, mentre nell’Upper East ci sono diplomatici, personaggi che magari non incontri perché hanno l’autista. Ci sono due filosofie diverse, effettivamente vivendo qui si notano e fa sempre abbastanza sorridere come differenziazione.

Che consigli ti senti di dare a chi vuole fare un percorso simile al tuo?

Di armarsi di pazienza, innanzitutto. Non è facilissimo, soprattutto se si vuole fare ricerca come lavoro, trovare un visto. Io ho un visto sponsorizzato tramite l’università che, comunque, ha sempre un aspetto determinato; non è mai star qui finché voglio o per sempre. È sempre collegato a uno specifico lavoro. Io non posso decidere domani mattina di fare una cosa da freelance negli Stati Uniti, perché devo essere sempre legata a chi mi ha assunta. Se volessi cambiare lavoro sarebbe problematico a livello di visto. Quindi, innanzitutto pazienza e un po’ di idee chiare. Cioè: “voglio fare questo e mi metto a lavoro per capire come farlo”. Non arrivare pensando che poi “me la caverò” in qualche modo. Questo è un altro di quei grandi errori di quell’ideale da sogno americano che secondo me è cambiato. Non è vero quasi per nessuno che basta alzarsi una mattina, venire negli Usa, ed è fatta. Gli Stati Uniti sono molto difficili, sono veramente molto complicati con i loro visti, peraltro costosi. Un altro consiglio è quello di prendere un po’ le cose con filosofia. Questa città è molto bella e offre moltissimo, ma toglie anche parecchio in termini di tempo. È abbastanza complessa; va vissuta con un po’ di “cuor leggero”. Non arrabbiarsi sempre per qualsiasi cosa succeda, non disperarsi se una cosa che si pensava di voler fare non si ottiene… Qui è normale dover cambiare i propri piani. Sono partita pensando che nel giro di pochissimi anni avrei avuto il mio dottorato, e probabilmente avrei continuato a fare pubblicità. Nel giro di mezzo anno, e soprattutto con il Covid, è tutto completamente cambiato. Bisogna, secondo me, accettarlo. Molti italiani – perché siamo stati cresciuti anche un po’ così – hanno l’idea che una cosa è un po’ per sempre; siamo molto fissi su un’idea. Ecco, qui non funziona molto questa cosa qui, ed è il motivo per il quale ho tre lavori. Ovviamente, ne hai anche bisogno a volte… Ma è più perché è meglio avere tante porte aperte, fare tante cose e farle bene. Il terzo consiglio che mi sento di dare è di non arrivare con troppa “fissità”: “voglio fare questo e questo e basta”. Un piano B, un piano C e un piano D sono necessari. Gli Stati Uniti non sempre realizzano quello che vogliamo.

Cosa cambia nel costruirsi e mantenersi una reputazione sui social in Italia o negli Stati Uniti?

Gli Stati Uniti in questo ci insegnano moltissime cose che noi dovremmo sfruttare di più. Ci insegnano a dibattere e discutere di temi difficili, che a volte sono dei tabù. Qui questo non è mai un problema e lo apprezzo molto. Fa parte della reputazione discutere di tematiche legate a colleghi che, magari, hanno una relazione o situazioni un po’ difficili, in cui non si capisce bene che tipo di rapporto ci sia sul luogo di lavoro. Questo è un tema che non è sempre facile affrontare, mentre negli Usa è la base: si inizia sempre dal problema prima ancora che avvenga. A me, devo dire, piace molto: sono tematiche, qui, all’ordine del giorno, discusse in modo intelligente e profondo. Secondo me in Italia tendiamo un po’ a sminuirle come delle questioni “politically correct”. In verità, questo gli americani lo sanno fare molto bene: preveniamo anziché curare. Se c’è un discorso in atto, inseriamolo all’interno del discorso del brand. Il brand adesso potrebbe essere attaccato per questa cosa? Se sì, come lo possiamo difendere? Sennò okay, cerchiamo comunque di trovare delle regole che possano funzionare. I social media possono immediatamente creare dei problemi di reputazione. Non le citerò, ma ci sono tanti esempi di aziende bellissime, stabili, con ottimi fatturati; poi purtroppo basta un qualunque commento o risposta data male sui social media e vengono massacrate per giorni. Dobbiamo farci i conti: i social media sono anche questo. A parte che per i social media bisogna avere comportamenti sostenibili non solo in ambito ambientale, ma anche nell’ambito del posto di lavoro, e qui l’attenzione è molto maggiore rispetto a mobbing o abusi, o a cose che da noi vengono “tollerate”. Voglio specificare: non è che qui non avvengano, ma ci sono già delle policy messe in conto anche nella scrittura di un post sul proprio canale, sul social media del dipendente. Lavorando in Italia ho notato che tendiamo a occuparcene solo se qualcun altro ha avuto quel problema. Secondo me è meglio occuparsene prima, a monte. Se tu sgarri la regola io so già cosa fare, che è quel che fanno qui. Il problema poi esiste, non si cancella grazie a un post su Facebook, ma almeno, magari, la reputazione è salva per un momento, che non farebbe male.

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