Sono già 30 anni che il sogno americano è parte della mia vita, evolvendosi in parallelo allo sviluppo dell’attività professionale e della mia crescita emotiva e intellettuale. E infatti, la stessa definizione di “sogno” (in questo caso ovviamente inteso come desiderio) porta con sé la fase di una sua possibile attuazione che per natura è ancorata alla realtà coinvolgendo tutti gli aspetti del nostro manifestarsi nella sfera pubblica e privata – da logistica a linguaggio, da cultura a sistemi regolatori e legali.
Che il mio “American Dream” fosse un qualcosa di “karmatico” lo si era capito subito dal fatto che esso stesso prese forma in occasione delle celebrazioni dei 400 anni della scoperta dell’America, ovvero per le Colombiadi del 1992 di Genova.
Essendo io un ligure della riviera del levante, questa sensazione acquisì ancor più spessore. E se ciò non dovesse bastare, si deve allora aggiungere che nel lontano 1858 il mio bisnonno percorse lo stesso sogno che nel suo caso aveva significato abbandonare il paese rurale dell’entroterra per imbarcarsi alla ricerca dell’oro (il suo nome l’ho trovato nella lista dei pionieri della California). C’è chi ha bisogno di allontanarsi da casa e c’è invece chi riesce a farlo restandoci, altri invece non lo fanno mai (alcuni anche per scelta), e mi riferisco all’attivazione del percorso di ricerca di quella luce particolare che accende la nostra mente e il nostro cuore per aiutarci a realizzarci nel modo più completo e consapevole possibile, con l’obiettivo di liberare tutte le nostre potenzialità professionali e personali.
Ho messo “professionali” per primo perché nel mio caso è stata questa la molla che ha attivato il processo, e parlando nel tempo con tantissimi amici italiani e stranieri arrivati anch’essi negli Stati Uniti, ho notato che la grandissima maggioranza è stata mossa dalla stessa motivazione: il lavoro, sul quale poi costruire la realizzazione e lo sviluppo dell’intera persona. E infatti il grande valore espresso dalla cultura statunitense è proprio quello della sua capacità di mettere in condizione l’individuo di poter realizzare la migliore versione di se stessi partendo proprio dal lavoro, e consentire quindi quella crescita economica che crea un certo tipo di felicità e benessere che poi ciascuno gestisce e sviluppa secondo la propria coscienza. Gli Stati Uniti lo fanno in modo sistematico e meticoloso: sistematico perché la burocrazia è minimizzata (ad esempio creare una società di capitali significa investire 200 dollari e 2 ore del tuo tempo); meticoloso perché il talento è valorizzato sia come commisurazione economica che come atteggiamento comportamentale di riconoscenza (bravo, grazie, e bravo ancora non sono mai lesinati, al contrario sono uno degli elementi più gratificanti dell’esperienza lavorativa nord americana, e probabilmente anglosassone più in generale). Insomma, potremmo sicuramente dire che negli USA il lavoro nobilita l’uomo, e allora i confronti con l’Italia diventano immediati e dovremmo quindi capire quando e perché ad un certo punto della storia abbiamo cambiato rotta.
Negli USA il tempo si contrae e gli spazi si dilatano, un po’ come se stessimo viaggiando tra i pianeti e mentre sulla terra si invecchia, noi lo facciamo ad un ritmo molto più lento (concetto questo veramente affascinante e forse poco esplorato – suggerisco il film Interstellar). In America, infatti, le dinamiche produttive sono molto veloci e in costante cambiamento, e leggere su una traghetta orgogliosamente esposta “in business since 1989” significa constatare l’esistenza di uno spessore di rilievo. Spessore che viene parzialmente validato dal fatto che un anno lavorativo in USA equivale ad una formazione professionale di 3 anni “italiani” (ovvio che poi ciò varia da settore a settore ma il concetto è applicabile sempre). Il bello di questo rush performante e competitivo è che se ci si applica bene e si è disposti a tenere i ritmi, i risultati arrivano, arrivano sempre e sono di gratificazione economica e morale.
È anche vero che la nostra cultura del fare e la nostra preparazione accademica risultano spesso alla base del nostro successo oltre oceano, perché sono complementari rispetto a quelle locali più impostate su aspetti tecnico-pratici che, se da un lato hanno la grande capacità di agevolare il pensiero di analisi e di pianificazione, dall’altra hanno la lacuna di essere troppo rigidi, schematici e settoriali (manca il c.d. critical thinking) e di essere quindi poco efficaci nel gestire gli imprevisti. Ed è qui che noi italiani, problem solvers per cultura, diventiamo grandi e molto appetibili nei quadri aziendali di tutti i livelli – da manutentore di impianti a manager esecutivi. La nostra reputazione di abilità nel connettere punti di vista e risolvere problemi multidsciplinari diventa poi creativitàpura che travalica l’arte e il design fino ad applicarsi ai settori della ricerca e della gestione aziendale di alto livello.
E se la concezione americana di Governo ci affascina molto, perché così poco si intromette nella vita di individui e aziende, dobbiamo anche renderci conto che per realizzare il nostro sogno americano dobbiamo passare attraverso una serie di compromessi morali e a volte anche ideologici su temi che avevamo dato per scontati. Parlo ad esempio del fatto di pagare tasse di proprietà “ingenti” sulla prima casa, oppure del fatto di dover sborsare un ammontare economico esorbitante per una copertura sanitaria completa (e comunque sempre ancorata al lavoro e mai gratuita nelle sue applicazioni – franchigie ecc.), oppure di abituarsi al fatto di vedere per strada, magari in fila per un panino o un caffè, civili armati di pistole e fucili (il così detto open carry, ovvero la facoltà di indossare palesemente in vista, e con il colpo in canna, armamenti di ogni genere), e ancora, accettare di dover tornare indietro di molti decenni per quanto a fondamentali diritti civili (come ad esempio il diritto ad un periodo remunerato di maternità). Certo, tutti i benefici più sopra descritti (benessere economico, gratificazioni individuali e realizzazione della migliore versione di sé stessi) sono sicuramente fattori importanti da mettere sul piatto della bilancia anche perché in effetti non esiste una società perfetta ma esiste solo la nostra possibilità individuale di contribuire allo sviluppo di una migliore – be the change you want to see in the world – Gandhi.