Catanese classe 1984, Francesco Costa è vicedirettore del quotidiano online Il Post, e un esperto di politica e società americana. Ha pubblicato di recente il libro Una storia americana (Mondadori, 2021) nel quale racconta la vicenda politica e umana del neopresidente Usa Joe Biden e della sua vice Kamala Harris, che fa seguito a Questa è l’America. Storie per capire il presente degli Stati Uniti e il nostro futuro (Mondadori, 2020), e con il suo progetto Da Costa a Costa, un podcast e una newsletter sugli Usa, ha vinto nel 2016 il Premio internazionale Spotorno per il nuovo giornalismo.
La prima domanda è quella che in genere poniamo a tutti gli intervistati: che cos’è per lei la reputazione?
Credo rappresenti l’identità di qualcuno secondo gli altri, insomma il “quadro” che gli altri dipingono di noi.
La reputazione si costruisce mantenendo un focus alto sulle proprie competenze, lei come giornalista ne ha scelto uno molto preciso, mentre sembra che il mondo dell’informazione in qualche modo stia andando in direzione opposta.
Oggi i giornalisti vivono un momento molto complesso: i giornali fino a qualche tempo fa erano indispensabili per chi voleva informarsi o anche soltanto accedere a un servizio come sapere cosa vedere al cinema o il risultato della partita del giorno prima. Insieme alla Tv costituivano l’unica fonte dove trovare queste informazioni, e bisognava pagare per ottenerle. Oggi sappiamo che non è più così, perché molte di queste notizie sono rese disponibili gratis e in tempo reale da soggetti che non sono giornalistici. I giornali, quindi, stanno cercando una nuova utilità rispetto ai servizi che portano alle comunità e alle democrazie, e diventa sempre più importante rendersi indispensabili passando attraverso una maggiore attenzione alla qualità, all’approfondimento e alla verifica di notizie e fatti. Quindi credo che i giornalisti siano naturalmente portati a specializzarsi, per fornire un lavoro che attragga il lettore e nello stesso tempo contribuisca a creare la reputazione di chi si occupa di un determinato tema.
Venendo agli Usa e alla sostenibilità, può riassumere quella che è stata la posizione dell’ex presidente Donald Trump rispetto all’ambiente, e parlarci della nuova direzione che Biden sembra voler intraprendere?
La posizione di Trump è stata di sostanziale disinteresse. Come sappiamo ha ritirato gli Usa dall’accordo sul clima di Parigi, sostenendo a lungo che il riscaldamento globale non esiste, e ha spesso messo in contrapposizione la sostenibilità con la crescita economica. Ha autorizzato le trivellazioni petrolifere in Alaska, ha tolto la dichiarazione di area protetta in molte regioni per consentire l’estrazione di legname e carbone, insomma si è mosso attivamente contro l’ambiente in tante circostanze. Biden invece vuole tornare a un consenso globale, e la sua opportunità è più unica che rara, perché l’uscita del Paese dalla crisi economica creata dalla pandemia sta generando enormi stanziamenti di denaro. Il suo slogan in campagna elettorale era “build back better”, cioè “riscostruiamo meglio di prima”, lui vuole approfittare di quel denaro per far ripartire l’economia in modo sostenibile, aiutando le aziende a riconvertirsi e puntando sull’energia pulita. Potrebbe essere ricordato tra qualche anno come il presidente che ha dimostrato che l’America può crescere in modo sostenibile, superando la dicotomia tra uscite economiche e protezione dell’ambiente.
Larry Fink, numero uno di BlackRock, la maggiore società di investimenti americana, un paio di anni fa ha detto “bisogna andare oltre il profitto” per far spazio all’idea che solo grazie a una crescita sostenibile è possibile continuare a prosperare. Il tema della sostenibilità è una svolta?
Lo è. Nella dichiarazione di BlackRock non c’è solo la constatazione che il nostro Pianeta è in pericolo, ma anche la pressione fortissima che arriva dai consumatori, soprattutto quelli più giovani, che esigono dalle aziende da cui acquistano i prodotti una filiera il più sostenibile possibile. Di conseguenza queste hanno interesse non solo a costruire nuove pratiche “green”, ma anche una nuova reputazione, perché la loro immagine oggi ne viene condizionata molto di più di quanto avveniva 20 o 30 anni fa.
Tornando alla reputazione, dopo la censura del profilo di Trump decisa da Twitter, ci siamo resi conto di aver affidato la nostra, come singoli o organizzazioni, a 4 grandi società private che fanno il bello e cattivo tempo e possono influenzare l’opinione pubblica. Qual è il “vaccino”?
Parliamo di una situazione complessa e difficile da regolamentare. In realtà veniamo già da un passato in cui la nostra reputazione era decisa da pochi soggetti, se pensiamo all’Italia degli anni Sessanta era affidata alla Rai e ad alcuni grandi giornali. Oggi tutto è reso più complicato dal fatto che gli attori in gioco sono colossi mondiali, a cui è davvero difficile fare concorrenza. Il vaccino, se c’è, è il pluralismo, e cioè la creazione di una molteplicità di aziende pubbliche e private che ti permettano di rivolgerti al tuo pubblico scegliendo quella che consideri più consona. Mi piacerebbe che di Facebook ce ne fossero 3 o 4 e di Twitter altrettanti, solo così, secondo me, è possibile togliere potere ai soggetti che oggi sono monopolisti.